Un rifugio è "il luogo dove ci si saluta anche tra sconosciuti e si mangia spalla a spalla". Dal "cubo" a oggi, una struttura in evoluzione raccontata dal Presidente della Sat
Per provare a capire la direzione architettonica dei rifugi, ci siamo confrontati con Cristian Ferrari, presidente della Società degli alpinisti tridentini. La Sat è, infatti, proprietari di ben 35 strutture distribuite nel settore orientale e occidentale del Trentino
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
La base di partenza di un rifugio? Nella maggior parte dei casi è il cubo. Da quella forma si è inserita poi una costante evoluzione della struttura che ruota attorno a due esigenze: ottimizzare spazi e uso materiali in zona complesse e difficili. L'architettura dei rifugi è un argomento dibattuto, anche divisivo, tra chi accetta un'idea più moderna e chi invece è ancora a un'immagine più tradizionale, un equilibrio tra avanguardismo e ancoraggio a una fotografia che rischia di sconfinare nel bianco e nero. Un tema riguarda il rapporto, questo invece mai anacronistico, con un territorio tra forme, estetica e materiali. E poi c'è il tema della progettazione di strutture ex novo perché la montagna piace: c'è necessità di aumentare l'offerta? Quale il futuro in un contesto di crisi climatica?
Oggi dati un po' per scontati ma che per decenni hanno accompagnato l'epoca pionieristica dell'alpinismo. Ma come nascono? In val Genova ci sono due sassi che sono indicati come primo riparo degli esploratori. Poi i primi rifugi sono i baiti dei pastori, come quello utilizzato da Julius Payer e compagni durante la prima salita all'Adamello. Successivamente arrivano i primissimi a base rettangolare come il rifugio Lares per approdare in molti casi al classico cubo.
Per provare a capire la direzione architettonica dei rifugi (Qui un approfondimento con Luca Gibello, direttore de Il Giornale dell’Architettura e membro del comitato scientifico de L’AltraMontagna), ci siamo confrontati con Cristian Ferrari, presidente della Società degli alpinisti tridentini. La Sat è, infatti, proprietari di ben 35 strutture distribuite nel settore orientale e occidentale del Trentino.
I nuovi rifugi sembrano allontanarsi dai canoni considerati tradizionali. Un edificio in muratura con gli scuri bianchi e azzurri nel caso dei rifugi della Società alpinista tridentina. Ogni riqualificazione oppure ogni ricostruzione dopo una calamità mette in moto la macchina la discussioni. Questo da sempre, oggi come allora perché il cambiamento genera dibattito.
"Visitando e osservando con attenzione ognuna delle 35 strutture di proprietà della Sat, si possono ancora notare i dettagli che mostrano come nel tempo diversi processi evolutivi si siano sormontati alla struttura originale", spiega Ferrari. "Molti di questi rifugi sono stati eretti a cavallo del secolo scorso e quindi gli attuali alpinisti possono percepire solo l'ultima fase di questa evoluzione 'di forma'. Tra il 1881 e il 1885 vennero edificati, per esempio, su base quadrata a due falde dall'ingegnere Annibale Apollonio il Rifugio Tosa, con il Lares e il Presanella, ora bivacco Vittorio Roberti, oppure il Taramelli e il Segantini dell'architetto Umberto Albertini, precursori del più noto 'Cubo Sat' a tetto piano".
Il cubo è stato quindi spesso la forma di partenza "di un'evoluzione architettonica sviluppata attorno alle esigenze di ottimizzazione di spazi e materiali. Osservando vecchie e nuove fotografie del Rifugio XII Apostoli Flli. Garbari è possibile riconoscere per esempio come l'attuale rifugio si sia evoluto attorno all'originale forma cubica del 1907/08".
Gli architetti all'epoca hanno cercato di valorizzare spazi e luce, materiali da portare in quota e la gestione in definitiva di risorse limitate. Un'esigenza, questa, che è rimasta nel tempo più o meno invariata. A cambiare la tecnologia, dei trasporti in primis per portare lassù il necessario, e macchinari, ma anche le tecniche costruttive si sono evolute e pure l'afflusso sulle montagne, un aspetto quest'ultimo non proprio in fondo all'elenco.
Tuttavia oggi si accarezza, molto spesso, l'idea di allargarsi un po' nella volumetrie. Si può osare? Quanto si può osare? "Ci piace ricordare che le nostre strutture sono degli edifici di alta quota inseriti in ambienti delicati ma severi e che il loro spazio e ingombro è, e deve rimanere limitato", spiega Ferrari. "In molti casi, le recenti ristrutturazioni hanno visto parziali riallocazioni di spazi interni o riordino di volumetrie esterne anche per soddisfare le esigenze di spazio per volumi tecnologici che sempre più dominano la progettazione delle strutture alpine. Magazzini, zone per la conservazione del cibo, dei carburanti, aree per impianti tecnici di depurazione e stoccaggio delle acque in ingresso o delle acque nere in uscita, e ancora spazi vitali per collaboratori che a pieno diritto meritano una stagione lavorativa in quota in ambienti decorosi. Aumenti di volumetrie che soddisfano più le esigenze tecniche che quelle di spazio".
Un altro tema centrale è legato al rapporto con il territorio: una relazione che influisce sulla forma e sulle misure, sull'estetica e sull'uso dei materiali.
"Gli spazi di discussione qui potrebbero essere infiniti", continua Ferrari. "Se frequentemente la forma del rifugio si adatta alla morfologia circostante anche per riparare da vento e dagli accumuli di neve, con materiali e colori simili all'ambiente circostante, in altri casi, un tetto di colore sgargiante, una grande vetrata luminosa (cioè che porta luce all'interno permettendo risparmio di luce e calore), una forma evoluta, un isolamento termico delle pareti con materiale moderno, diventano un segno distintivo della struttura, fino ad arrivare a coperture con metalli riflettenti che pare invece ottengano un effetto contrario nell'opinione pubblica. Non dobbiamo dimenticare, però, che l'aspetto prioritario è l'accoglienza, come definito dal nome di queste strutture. Poi la valutazione deve essere caso per caso: non ci può essere un modello prestabilito nella visione perché talvolta si possono adattare le esigenze al contesto".
A ogni modo "materiale interno ed esterno legato al territorio sono delle indicazioni di progettazione nei criteri della Sat, siamo consapevoli che l'accettazione della struttura sia soprattutto soggettiva e quindi non metta sempre tutti d'accordo. Ma la compattezza geometrica rimane per le nostre strutture una necessità e un'ispirazione per i progettisti con cui collaboriamo in questo campo".
Un punto forte del rifugio resta, forse, la disponibilità degli spazi comuni, come le camerate. Sembra questo un modello ancora attuale delle strutture in quota. "L'esperienza nel rifugio va oltre il solo pernottamento", evidenzia il presidente della Sat. "E' il luogo dove le distanze sociali, le barriere si infrangono, dove ci si saluta anche tra sconosciuti, dove si mangia spalla a spalla su tavolate comuni, dove si condivide una passione con tutti gli ospiti del rifugio. Gli spazi comuni, da quelli all'ingresso dove si asciugano scarpe e vestiti, alla sala da pranzo, ai bagni dove far la fila ed alle camere e camerate condivise sono l'ingrediente base della vita nel rifugio".
E questa condivisione "salva" probabilmente i rifugi dal diventare troppo grandi. "La comprensione e l'adattamento a questa filosofia è un passo obbligato per evitare che la gestione e la struttura richiedano spropositati aumenti volumetrici per andare incontro a tavolini e camerette. Potremo anche mantenere il volume del rifugio e ridurre il numero di camere e le capienze delle sale da pranzo con l'utilizzo di tavolini appartati e camerette singole ma va a scapito della redditività del rifugio per il gestore e della possibilità di accoglienza della struttura. Credo a oggi che per gli spazi comuni si sia raggiunto un corretto compromesso".
C'è posto per nuovi rifugi oppure è preferibile riqualificare l'esistente? "Per la Sat attualmente non c'è interesse alla ricerca di nuove strutture, sia per concentrarsi (tecnologicamente ed economicamente) su quelle presenti, ma anche perché, soprattutto nella parte più alta delle montagne forse si è raggiunto un limite di occupazione del territorio. Probabilmente nuove strutture in zone oggi scariche, potrebbero trovare forte interesse nei confronti degli escursionisti ma andrebbero a snaturare il territorio in cui vengono inserite".
Il futuro è aperto e tutto da scrivere (e da discutere) ma una caratteristica non abbandona i rifugi, un avamposto anche per comprendere l'epoca in cui si vive e per questo l'analisi e la raccolta dati, una specie di piccolo centro di ricerca, resta un'attività centrale, un modo per veicolare la cultura e la capacità di interpretare le terre alte.
"Il rifugio rimane un laboratorio d'alta quota; un luogo dove sbagliare qualche passaggio costruttivo può significare un declino veloce della struttura o un disagio nel comfort abitativo per modifiche nei parametri ambientali quali umidità, temperatura o altro che rendono poco piacevole o impossibile l'esperienza in rifugio. La progettazione e il monitoraggio in alta quota, l'utilizzo di materiali moderni, l'attenzione alle risorse limitate in quota, quali acqua, energie e luce insegnano anche ai progettisti che lavorano in fondovalle, come tecnologie costruttive e accorgimenti architettonici possano portare grandi migliorie, sia dal punto di vista fisico che economico", conclude Ferrari.